mercoledì 26 gennaio 2011

27 gennaio 2011 - Giorno della Memoria


La frase dello scrittore Primo Levi "meditate che questo è stato" e l'immagine del polso di un detenuto in un lager con tatuato il numero identificativo di prigionia sono stati scelti dal Partito Democratico per ricordare l'Olocausto.

Il 27 gennaio è il giorno della Memoria, memoria dell’Olocausto, memoria delle atrocità compiute dall’uomo sull’uomo, memoria del male assoluto.

Un male che ha mietuto milioni di vite:
Ebrei 5 - 9 milioni.
Polacchi non ebrei 1,8 - 2 milioni
Rom e Sinti 220 - 500 mila
Disabili e Pentecostali 200 - 250 mila
Testimoni di Geova 2 - 5 mila
Dissidenti politici 1,5 - 2 milioni
Slavi 1 - 2,5 milioni
Prigionieri di guerra Sovietici 2 - 3 milioni.
TOTALE 12,25 - 17,75 MILIONI di esseri umani.

Nonostante questo male sia stato sconfitto il 27 gennaio del 1945 svelato dalle atrocità di Auschwitz, mai è stato debellato, il male che porta il nome di “Antisemitismo”.

La Giornata della Memoria deve essere qualcosa di molto attuale e non un rituale, un’azione attiva e non la celebrazione di una storia immobile e lontana nel tempo.

Bisogna impedire la negazione della storia e ostacolare l’ingiustificabile capovolgimento della realtà, il pericolo esiste, e non va sottovalutato, una tragedia come quella delle camere a gas, dello sterminio di ebrei, zingari, omossessuali, non può essere negata, eppure, ancora oggi, c'è chi continua ad impedire che la memoria porti con sé i semi della verità.

In una società addormentata e distratta da falsi problemi e con una crisi economica dalle conseguenze gravissime dobbiamo impegnarci per isolare ogni tentativo di intolleranza e discriminazione, la memoria deve essere il vaccino al virus dell’antisemitismo, il vaccino contro l’indifferenza, contro il rischio che esploda e che infetti il corpo fragile della società e con esso il rischio di diffondersi in altre forme di crimini contro l’umanità.

Quindi, il ricordare diventa un dovere etico il cui significato deve essere tramandato di generazione in generazione a testimonianza di un evento tragico che dovrà per sempre rimanere quale monito nella memoria delle generazioni future, perché ciò che è stato interroghi ancora oggi le nostre coscienze per non dimenticare che odio e pregiudizio sono le cause che l’hanno determinato, dal momento che l'intolleranza, il pregiudizio, la violenza razziale, religiosa ed omofoba non sono state estirpate, ma sopravvivono anche nel presente.

Lo stesso Primo Levi ribadiva come resta sempre costante il rischio che quella catastrofe si riproponga: “E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire“ (dal libro “i sommersi e i salvati”).

Per chi è chiamato ad  assolvere responsabilità nella politica come nella società, deve sentire su di sé l’impegno morale di non alimentare mai questi sentimenti, deve sentire l’urgenza morale di unire e non di dividere e di aiutare la comprensione reciproca.


Il contributo del Partito Democratico:


Il contributo di Graziano Esposito: 
La violenza inutile.
Istituita con una legge dello Stato soltanto undici anni fa, il Giorno della Memoria, a detta anche di autorevoli commentatori, rischia un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi facendo venir meno lo scopo iniziale della Giornata, ossia ricordare per creare una coscienza umana come antidoto per ogni violenza, persecuzione e discriminazione.
Sicuramente Levi è, tra i superstiti di Auschwitz, quello che ha più impegnato la propria esistenza a far conoscere tutto il male della Shoah.
Nel cap. V della sua ultima opera “I sommersi e i salvati”, Levi traccia uno spaccato delle violenze che erano perpetrate nei lager. Violenza inutile. Perché esiste una violenza utile? Purtroppo sì.
La morte, anche non provocata, anche la più clemente, è una violenza, ma è tristemente utile, né è inutile, in generale, l’assassinio.
Messi da parte i casi di follia omicida, chi uccide sa perché lo fa: per denaro, per sopprimere un nemico vero o presunto, per vendicare un’offesa. Le guerre sono detestabili, sono un pessimo modo per risolvere le controversie tra nazioni o tra fazioni, ma non si possono definire inutili.
Ora io credo che i dodici anni hitleriani abbiano condiviso la loro violenza con molti altri spazi-tempi storici, ma che siano stati caratterizzati da una diffusa violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione di dolore.
All’inizio della sequenza del ricordo sta il treno che ha segnato la partenza verso l’ignoto: non solo per ragioni cronologiche, ma anche per la crudeltà gratuita con cui erano impiegati a uno scopo inconsueto quegli (altrimenti innocui) convogli di comuni carri merci.
Ora, cinquanta persone in un vagone merci stanno molto a disagio, possono sdraiarsi tutte simultaneamente per riposare, ma solo corpo a corpo. Se sono cento o più, anche un viaggio di poche ore è un inferno, si deve stare in piedi o accovacciati a turno.
La nudità del vagone era totale. Le autorità tedesche non provvedevano letteralmente a nulla: né viveri, né acqua, né stuoie o paglia sul pavimento di legno, né recipienti per i bisogni corporali, e neppure si curavano di avvertire le autorità locali dei campi di raccolta, di provvedere in qualche modo. Un avviso non sarebbe costato nulla: ma appunto, questa sistematica negligenza si risolveva in un’inutile crudeltà, in una deliberata creazione di dolore che era fine a se stessa.
Da Westerbork, in Olanda, partirono novantatré treni con un migliaio di deportati per ogni treno. I superstiti furono circa cinquecento.
Qualche volta il convoglio veniva fermato in qualche stazione e venivano aperte le porte dei vagoni.
Ai prigionieri era concesso di scendere per i bisogni impellenti, ma di rimanere nei pressi dei binari.
Le SS della scorta non nascondevano il loro divertimento nel vedere uomini e donne accovacciarsi dove potevano, e i passeggeri tedeschi esprimevano apertamente il loro disgusto: gente come questa meritava il suo destino, basta vedere come si comportano, non sono essere umani ma bestie, porci; è evidente come la luce del sole.
Ma come affermava Levi, tutto ciò era solo il prologo. Nella vita che doveva seguire, nel ritmo quotidiano del lager, l’offesa al pudore rappresentava, almeno all’inizio, una parte importante della sofferenza globale.
Non era facile né indolore abituarsi all’enorme latrina collettiva, ai tempi stretti e obbligati, alla presenza davanti a te dell’aspirante alla successione.
Tuttavia, entro poche settimane il disagio si attenuava fino a sparire; sopravveniva (non per tutti!) l’assuefazione, il che è un modo caritatevole di affermare che la trasformazione da essere umani in animali era sulla buona strada.
Probabilmente questa trasformazione da esseri umani in animali non è stata mai progettata né formulata chiaramente. Era una conseguenza logica del sistema. Un regime disumano diffonde ed estende la sua disumanità in tutte le direzioni, anche e specialmente verso il basso.
Le donne di Birkenau raccontano che, una volta conquistata una gamella (una grossa scodella di lamiera smaltata), se ne dovevano servire per tre usi distinti: per riscuotere la zuppa quotidiana, per evacuarvi di notte, e per lavarsi quando c’era l’acqua ai lavatoi.
Appena arrivati al campo, l’offesa al pudore continuava con la costrizione alla nudità. Nudità che non riguardava soltanto l’abbigliamento ma anche i capelli e tutti gli altri peli. Un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme. Gli abiti, anche quelli più immondi sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come un verme che sa di poter essere schiacciato da un momento all’altro.
Esiste un’invenzione che è nata proprio ad Auschwitz: il tatuaggio.
Di per sé l’operazione era poco dolorosa e durava soltanto qualche minuto, ma era traumatica.
Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che s’imprime agli schiavi e al bestiame destinati al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più un nome. Questo è il vostro nuovo nome.
Anche la violenza del tatuaggio era una violenza gratuita, fine a se stessa, pura offesa.
Non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca e al mantello invernale? No, non bastavano, occorreva un messaggio non verbale, affinché l’innocente sentisse sulla sua carne la sua condanna.
Primo Levi, a questo punto, si pone la domanda: se gli ebrei dovevano morire perché i nazisti non hanno ucciso le loro vittime dove li trovavano, cosa sicuramente più economica, anziché affannarsi a trascinarli con i loro treni per portarli a morire lontano, dopo un viaggio insensato?
Veramente si è indotti a pensare che la scelta imposta dall’alto fosse quella che comportava la massima afflizione, il massimo spreco di sofferenze fisiche e morali. Il nemico non soltanto doveva morire, ma morire nel tormento.
L’estrema umiliazione avveniva sulle spoglie umane dopo la morte. I trattamenti cui erano sottoposti nei lager volevano esprimere che non si trattava di resti umani, ma di materia bruta, indifferente, buona, nel migliore dei casi per qualche impiego commerciale.
Le ceneri umane provenienti dai forni crematori, tonnellate il giorno, erano facilmente riconoscibili come tali, poiché contenevano spesso denti o vertebre.
Ma nonostante ciò furono usati per vari scopi: per colmare terreni paludosi, come isolante termico nelle intercapedini di costruzioni di legno, come fertilizzante fosforico, in modo particolare furono impiegate al posto della ghiaia per rivestire i sentieri del villaggio delle SS situato accanto al campo.
Qui Levi chiosa, con macabra ironia, che non sa se per pura callosità, o se non invece, perché, per la sua stessa origine, quello era materiale da calpestare. A conclusione del suo drammatico capitolo sulla “violenza inutile”, Levi richiama alcune battute tratte dall’intervista che la scrittrice Gitta Sereny fece a Franz Stangl, ex comandante del lager di Treblinka (intervista tratta dal libro “In quelle tenebre”, Adelphi, Milano, 1975, p.135): “Visto che li avreste uccisi tutti… che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà? ” chiese la scrittrice a Stangl detenuto nelle carceri di Dussendorf. Questa fu la risposta: ”Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendere possibile fare ciò che facevano”. In altre parole, prima di morire, la vittima deve essere degradata, affinché l’uccisore senta meno il peso della sua colpa. E’ una spiegazione non priva di logica, ma che grida al cielo: è l’unica utilità della violenza inutile.
La difficoltà del testimone è accentuata dal fatto che loro sono costretti a raccontare episodi di una crudeltà così enorme e di così grandi proporzioni da sembrare delle esagerazioni inverosimili. Questa difficoltà era stata prevista in anticipo dagli stessi colpevoli.
Come riferisce Primo Levi, molti sopravvissuti ricordano che i militari delle SS si divertivano ad ammonire cinicamente i prigionieri: ”In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà, forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove insieme con voi.
E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi perché siano creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi che negheremo tutto e non a voi. La storia dei lager, saremo noi a dettarla”.